IL FALLIMENTO DI UN SISTEMA

Comunicato n. 30/08

Roma -

 

Di tutti i mali possibili, la recessione è quello che il capitalismo teme di più. E questo non solo per le fortune finanziarie che può mandare in frantumi e per le aziende che può mettere in crisi, ma anche per la crisi di fiducia che può ingenerare.

Tecnicamente la recessione è una riduzione di produzione e consumo, in pratica il PIL che invece di crescere diminuisce. Politicamente è la caduta di un mito, il fallimento definitivo dell’ideologia della crescita, su cui è stata costruita l’impalcatura capitalista.

Per questo oggi, a crisi conclamata, gli economisti accorrono a frotte. Ciascuno con la propria ricetta e la propria interpretazione dei fatti, ma tutti con lo stesso obiettivo: rimettere in qualche modo il sistema in piedi per farlo riprendere a funzionare.

Di solito in questi casi la parola d’ordine è minimizzare. Per nessun motivo cioè bisogna creare allarmismi ed anche questa volta la consegna è stata rispettata.

L’attenzione è tutta concentrata sugli Stati Uniti dove il terremoto si è manifestato (8 banche fallite nei primi sette mesi dell’anno), ma pochi ne cercano l’epicentro.

Ricerca pericolosa, perché a finire sotto accusa sarebbe la globalizzazione, altro mito moderno che è proibito mettere sia pure soltanto in parte in discussione.

Gli studiosi più attenti, ad onor del vero, avevano previsto da tempo la crisi. Avevano cioè capito come non potesse funzionare un sistema che esporta la produzione dove i salari sono a livello da fame, con la pretesa di rivenderli in Europa e negli Stati Uniti.

Espedienti. Il giocattolo naturalmente non poteva che infrangersi, perché non si è affrontato alla radice il tema della perdita del potere d’acquisto dei salari.

Nel contempo, il pianeta intero sta esaurendo le sue risorse e sta agonizzando sotto i nostri rifiuti, come dimostra l’impennata del prezzo del petrolio, dell’acqua e del cibo.

Un vero e proprio incubo, quello attuale, come non si vedeva da oltre mezzo secolo.

Imperterriti, economisti ed imprenditori si rifiutano di guardare in faccia la realtà e continuano a costruire un mondo sempre più iniquo totalmente incentrato sul mercato.

Mentre i politici sono certi che nessuno alla fine reclamerà, perché l’ipotetica nuova crescita riuscirà probabilmente a dare un contentino anche agli ultimi.

Quando, in un futuro peraltro non troppo lontano, tutti toccheranno con mano che non ci sono più margini di crescita e che questo sistema è destinato perciò al fallimento, forse sarà troppo tardi. Perché la presunzione di poter risolvere i problemi basandosi su equilibri ancor più fragili dei precedenti è e resta alla base di questo fallimento.

Invece di insistere su una impossibile crescita, bisognerebbe potenziare la solidarietà collettiva e l’economia pubblica, per salvaguardare i beni comuni e i diritti per tutti.   

 

Coordinamento regionale RdB-CUB INPS Lazio