ASSEMBLEA NAZIONALE CUB - RICCIONE 22/24 MAGGIO 2009

- RELAZIONE INTRODUTTIVA -

 

Questa che avviamo oggi non è una ritualità, non è la risposta ad una esigenza di calendario o di statuto che dice che ogni tot anni le organizzazioni a base democratica si riuniscono, per verificare il proprio operato, per discutere sul da farsi, per rinnovare i propri organismi, anche perché, se così fosse, saremmo in drammatico ritardo di oltre due anni.

 

Questa è un’Assemblea politica di confronto sul che fare di fronte alle trasformazioni strutturali del mondo del lavoro e non solo. E proprio perché ha queste caratteristiche diciamo subito che non la consideriamo un’assemblea nazionale della sola CUB, ma un luogo di discussione di tutti coloro che hanno accettato di parteciparvi, anche fuori dalla CUB, e che ringraziamo fin d’ora per questa loro disponibilità e condivisione del metodo. Siamo così convinti che questa sia la strada giusta che chiediamo agli ospiti di non sentirsi tali, di non immaginare la propria partecipazione nel modo classico di chi arriva, ascolta la relazione, porta un saluto ed un augurio in apertura dei lavori e poi se ne torna ai propri affari. Vi chiediamo di restare con noi per tutta la durata dell’Assemblea nazionale, di condividere con noi il vostro punto di vista e le vostre proposte, in poche parole di aiutarci nella difficile impresa di avviare, da questa assemblea, una fase costituente di un soggetto nuovo, più ampio e radicato nei luoghi di lavoro e nella società, utile ai lavoratori nella quotidiana battaglia per affermare i propri diritti e affrontare collettivamente i propri bisogni.

 

Questo primo scorcio di ventunesimo secolo ci consegna un mondo profondamente trasformato rispetto a quello con cui ci siamo confrontati nel secolo scorso. Allora costruimmo le nostre esperienze di lotta e di antagonismo sulla scorta di categorie strutturate: il fordismo, la centralità operaia e di fabbrica, l’operaio massa, la questione meridionale, la disoccupazione. Fino a che i processi di globalizzazione, di competizione interimperialistica - come abbiamo imparato a definirli cogliendone gli aspetti meno evocativi e più legati alle categorie di pensiero che ci hanno formato - hanno sconvolto quelli che sembravano dovessero essere i paradigmi immodificabili della produzione almeno nei paesi a capitalismo avanzato.

 

La grande produzione trasloca e viene delocalizzata laddove il costo del lavoro è infinitamente più basso che nei paesi sviluppati, dove i sindacalisti che provano a mettere in discussione le condizioni di lavoro vengono perseguitati a dozzine senza che nessuno si scandalizzi. E mentre la grande impresa viene sempre più marginalizzata e il paese diventa sempre più fatto di piccole e piccolissime imprese, l’Italia si scopre a vocazione più turistico/commerciale che industriale, cresce il settore dei servizi, la pubblica amministrazione viene sempre più volta al soddisfacimento delle esigenze di impresa piuttosto che a garantire assistenza e diritti ai cittadini. Il welfare diventa un affare da far gestire sempre meno al pubblico e sempre più ai privati Il contratto di lavoro a tempo indeterminato, il posto fisso, non è più il contratto prevalente ma viene sempre più sostituito dai contratti precari che oltre a rendere profondamente ricattabile la forza lavoro ne estendono i suoi effetti nefasti a tutta la sfera della persona.  Il diritto alla casa diventa un non problema perché, si dice, ormai oltre il 90% degli italiani è proprietario di casa, anche se così non è e sono centinaia di migliaia coloro che, soprattutto nelle città metropolitane, vivono in affitto e sono sempre più spesso sottoposti a sfratto perché impossibilitati a pagare alla rendita e alla speculazione gli affitti da rapina che pretendono. Sempre più proprietari, quelli costretti a comprare dalla assoluta mancanza di disponibilità di alloggi in affitto a prezzi equi, sono con l'acqua alla gola a causa dei mutui capestro che hanno sottoscritto.

 

Cambiano quindi in parte i problemi ma non la natura dei problemi, non cambia la dimensione dello sfruttamento. Anche se in molti suoi aspetti cambia la forma, non cambia la divisione tra sfruttati e sfruttatori, parole antiche, forse in disuso, ma che continuano a rappresentare meglio di qualunque altra la cruda realtà dei fatti. Certo noi celebriamo la nostra assemblea nazionale in uno dei paesi più sviluppati dell'occidente capitalistico, non in uno di quei paesi in cui la maggioranza della popolazione è costretta a vivere, se così si può dire, con 1 dollaro al giorno o a fuggire cercando di sottrarsi al proprio destino mettendosi nelle mani di criminali che ne sfruttano il bisogno e li depredano delle loro misere cose per traghettarli verso la nostre coste dove, sempre più spesso, trovano altri criminali in doppio petto pronti a respingerli al loro paese. Noi viviamo nell'occidente opulento, ma in una cittadella assediata da chi non ha nulla e chiede qualcosa.

 

Questa nostra condizione sta producendo un fenomeno di involuzione culturale preoccupante, che il nostro paese non aveva mai rivelato così compiutamente come oggi, la paura di dover dividere con altri la nostra ricchezza, che l'arrivo di altri meno fortunati di noi, nati cioè in luoghi dove sopravvivere è già difficile, metta in discussione la nostra condizione di vita materiale che è già complicata e difficile, ma si svolge pur sempre dentro uno dei paesi più avanzati del mondo. Se la competizione globale ha bisogno di esercitare forti riduzioni dei diritti e delle condizioni di vita e di lavoro nei paesi occidentali, negli altri paesi del mondo sta producendo, attraverso la sistematica rapina delle risorse, il sostegno a regimi spesso brutali e sostenuti dalle grandi multinazionali per poter perpetrare in assoluta tranquillità i propri crimini, veri e propri stermini di massa di cui a noi giungono soltanto gli echi attraverso un sistema mediatico corrotto, volgare e piegato all'esigenza di rappresentare come mali del mondo le idiozie e nascondere le vere, terribili tragedie in atto.

 

La scommessa, che purtroppo sembra essere ampiamente riuscita, è quella di una regressione culturale grave, segnata da xenofobia e razzismo, intrisa di egoismo e di difesa di quel che si ha, imputando ad altri come noi, più sfortunati di noi, la colpa della nostra riduzione di potere

d'acquisto, del fatto che non ci sono case per la gente meno abbiente, che il lavoro scarseggia e la precarietà diventa la normale condizione di lavoro per milioni di giovani e meno giovani e il paradosso è che a scagliare gli uni contro gli altri sono proprio coloro che sostengono con ogni mezzo proprio quella globalizzazione che sta producendo questo impressionante impoverimento generale dei lavoratori e delle classi popolari e l'arricchimento smisurato dei padroni e dei capitalisti.

 

In questo quadro già piuttosto complesso in cui siamo immersi da alcuni decenni, si è inserito l’emergere della crisi più profonda e grave che noi tutti abbiamo mai affrontato e conosciuto. Una crisi economica che è in corso ormai da anni, che hanno cercato di nascondere attraverso la finanziarizzazione credendo fosse possibile fare i soldi con i soldi, snobbando la produzione materiale, reinvestendo gli utili non nelle aziende ma nelle borse di tutto il mondo, lasciando mano libera a speculatori di ogni risma che si arricchivano come mai prima sulla pelle della gente che si fidava di loro, anch’essa convinta che li avrebbero fatti partecipare al banchetto.

 

Cosa è realmente accaduto finora lo sappiamo tutti, dai crack del secolo delle maggiori banche di investimento alla ricaduta materiale di questi crack sulle famiglie, dalla stupefacente tranquillità con cui gli stati hanno deciso di sostenere banche e bancarottieri, versando loro fiumi di denaro per ripianare i deficit e aumentando così il debito pubblico che saremo chiamati noi a ripagare, fino alla spudorata pretesa di farci credere che non sta succedendo niente.

 

Questa è una crisi strutturale, di sistema, che probabilmente cambierà il mondo e il modo di produzione capitalistico, che ha già cominciato a far pagare un conto molto salato ai lavoratori e alle loro famiglie attraverso licenziamenti, cassa integrazione, omicidi sul lavoro, mancato rinnovo dei contratti ai precari, stretta sui salari, riduzione del welfare, sfratti, repressione delle lotte e aggressione ai diritti ottenuti con lotte e sacrifici grandissimi dal movimento dei lavoratori negli anni passati.

 

Per fortuna però comincia ad uscire fuori la rabbia di chi è perfettamente cosciente di cosa gli stia capitando. Molti hanno utilizzato quanto avvenuto sabato scorso a Torino al corteo Fiat per cercare di esorcizzare la rabbia operaia, molti hanno preso a pretesto quell’episodio per correre a lanciare di nuovo i propri strali contro gli estremisti, i violenti, coloro che addirittura non accettano di farsi guidare dalla Fiom, il sindacato più di sinistra del Paese che però nelle fabbriche si comporta esattamente come gli altri sottoscrivendo accordi che producono l’emarginazione di chi osa opporsi alle ristrutturazioni. Ministri e padroni hanno provato a cogliere l’occasione per richiamare la Cgil alla ragionevolezza, qualcuno già prefigura scenari brigatisti alimentati “da chi coglie l’occasione della crisi per soffiare sul fuoco della protesta senza sbocchi”. Noi, per scelta, abbiamo sempre guardato con grande diffidenza l’utilizzo delle manifestazioni altrui come luogo in cui portare le proprie parole d’ordine e far sentire la propria voce. I  compagni che hanno scelto di essere a Torino sabato scorso hanno forse compiuto un errore di valutazione se hanno pensato di poter esercitare lì la propria diversità, ma hanno senz’altro avuto il merito di aver riaperto la discussione sulla condizione operaia, rompendo con la melassa sparsa a piene mani con l’intento di impedire la rivolta verso chi vuole farci pagare la crisi.

 

Il governo Berlusconi in Italia, ma anche Sarkozy in Francia, la Merkel in Germania sono a fianco dei padroni nel garantire loro un’uscita indolore dalla crisi, anzi sono, oggi come mai, i veri cani da guardia di un padronato arrogante nel chiedere dallo Stato ogni tipo di sostegno alla propria pretesa di non diminuire di un centesimo i propri guadagni.

 

Sono quei padroni che di fronte alla richiesta di una diversa distribuzione della ricchezza, in un paese che le recenti stime OCSE dicono avere i salari più bassi del 17 per cento rispetto alla media europea, rispondono con migliaia di licenziamenti a fronte di liquidazioni milionarie e stock option ai propri fedeli manager che, come accaduto per le Ferrovie o per Alitalia, vengono premiati per aver distrutto le aziende che guidavano per consentire evidenti operazioni finanziarie e speculative.

 

Sono quei governi che attaccano con forza la scuola pubblica, i servizi sociali, che comprimono il diritto a lottare e ad opporsi, tirando fuori ogni giorno una legge anti sciopero, un protocollo per impedirci di manifestare, che attaccano le donne e i diritti che si sono conquistate facendo fare passi avanti giganteschi a tutto il movimento dei lavoratori. Sono quei ministri che, a libro paga della Confindustria, hanno aperto la stagione della caccia al dipendente pubblico con l’obbiettivo di ridurre la qualità del lavoro raggiunto ma soprattutto per ridimensionare drasticamente l’impegno dello stato nella cosa pubblica e renderlo così davvero appetitoso per i padroni e gli speculatori senza scrupoli come insegna la vicenda troppo presto archiviata della clinica degli orrori di Milano.

 

Sono quei governi che, mentre la crisi infuria, spargono però ottimismo a piene mani e inoculano veleni xenofobi tra la gente, assurti addirittura a norma di legge con il pacchetto sicurezza, per indurla a occuparsi d’altro e ad immaginare che la colpa della propria condizione materiale sia da attribuire all’immigrato, al rom, al diverso.

 

La esorcizzano, la crisi, ben coscienti che questa esiste, che è più grave e devastante di qualunque altra se ne abbia memoria, perché sanno che esistono mille motivi obbiettivi per la rivolta di classe ma sanno anche che non esiste ancora la soggettività del movimento in grado di guidarla.

 

Una strategia ben congegnata che non trova oggi, nel nostro paese, alcuna risposta adeguata sia sul piano sociale che su quello politico se non quelle che riusciamo, con fatica, a mettere in campo noi tutti. Le  elezioni del 2008 ci hanno consegnato un fortissimo rafforzamento della destra, soprattutto di quella identitaria e parafascista della Lega; un ridimensionamento, destinato a crescere, del centro sinistra moderato e il suicidio della sinistra radicale che ha acriticamente appoggiato il governo Prodi nella sua opera sistematica di demolizione di qualsiasi riferimento di classe per il blocco sociale che pure lo aveva ancora una volta votato.

 

Le organizzazioni sindacali storiche sono in gravissima crisi e di fronte ad un bivio. Il governo berlusconi attraverso la riforma dei contratti, che attacca violentemente il contratto collettivo, il salario, la rappresentanza e i diritti, ha deciso, questa volta sembra senza tentennamenti, di andare all’attacco definitivo della “forma sindacato” così come si era affermata nel ‘900.

 

E’ evidente la volontà di eliminare ogni forma di intermediazione sociale, di tutela dei diritti dei lavoratori, ogni strumento utile a far avanzare le condizioni di vita nel mondo del lavoro e per i settori popolari. E così Sacconi può affermare tranquillamente che bisogna passare dalla concertazione alla “complicità” e arruola immediatamente la Cisl e la Uil che, ben felici del nuovo ruolo che gli viene assegnato, si prestano ancora una volta a sottoscrivere accordi e protocolli che spaccano il fronte concertativo tra chi, trasformandosi in buona sostanza in un ente parastatale, si accontenta di giocare il ruolo di gestore degli ammortizzatori sociali attraverso una forte implementazione degli enti bilaterali, e la prospettiva di fare con questi un sacco di soldi, e chi, come la Cgil, in questa fase è impegnata, come già avvenne nel 2004, a sostenere una funzione tutta politica di supplenza della inesistente opposizione nei confronti di Berlusconi, ma è già pronta ad una rapida marcia indietro qualora il governo gliene fornisse l’occasione. Anche la sua ferma opposizione all’accordo di riforma del sistema contrattuale già mostra le prime crepe. Nelle categorie i contenuti di quell’accordo stanno passando direttamente nei contratti collettivi con la firma anche della Cgil, che tuona sul piano confederale e si accoda su quello categoriale. L’esempio più eclatante, e di cui siamo stati testimoni diretti, è lo scandaloso protocollo sul Contratto della mobilità, sottoscritto da tutti, compreso la Cgil, che unifica i lavoratori del trasporto pubblico con quelli delle ferrovie, applica il triennio salariale e normativo, offre un ridicolo aumento salariale. Per fortuna la categoria degli autoferrotranvieri ha già messo in campo una risposta adeguata e dura con il massiccio sciopero del 15 maggio, uno sciopero tanto più importante perché attuato dopo la firma dell’accordo e tutti noi sappiamo quanto sia difficile chiamare i lavoratori alla lotta dopo che si è chiuso un contratto.

Peraltro la cgil è anche attraversata al suo interno da poco nobili lotte di potere mascherate da diverse opzioni politiche. Il balletto indecente a cui stiamo assistendo in questi giorni è emblematico. Il leader della funzione pubblica Cgil, Podda che, escluso dalla segreteria confederale Cgil da Epifani, negli scorsi mesi si era  schierato a sinistra nella confederazione fino a proclamare uno sciopero assieme tra lavoratori pubblici e meccanici, nei giorni scorsi, nel breve volgere di poche ore, ha chiesto ed ottenuto la tessera del PD e, in una intervista al Riformista, ha lanciato la sua nuova proposta: contratto unico a tutele progressive (il contratto a tempo indeterminato e le tutele connesse arriverebbe dopo anni e anni di lavoro) e ovvia conseguente eliminazione dell’articolo 18 che a quel punto non servirebbe più a nulla. In tutto e per tutto la proposta di Ichino, Boeri ecc. Ovviamente non è stato un colpo di sole, semplicemente si è avviata la corsa alla sostituzione di Epifani alla guida della Cgil e anche il segretario della f.p. si è messo in pista, cercando di grattare anche qualche consenso sul fronte riformista interno.

 

Non sappiamo quando la frattura  tra Cisl e Uil da una parte e Cgil dall’altra si ricomporrà formalmente, quello che sappiamo perfettamente è che non c’è mai stata veramente rottura sulla funzione del sindacalismo concertativo, di contenimento delle lotte e delle richieste del mondo del lavoro.

 

Se questa è, per grandi linee la situazione che stiamo vivendo allora la domanda principale che dobbiamo porci è quella al fondo di questa assemblea nazionale, cioè la convinzione che si sia aperto, e sia destinato inevitabilmente ad ingrandirsi, uno spazio rilevante per posizioni sindacali e sociali antagoniste, radicali e conflittuali e se noi oggi siamo adeguati a riempirlo.

 

L’apertura del confronto interno alla CUB aveva in se questa domanda di adeguamento della confederazione ai nuovi compiti e alle nuove responsabilità a cui siamo chiamati se vogliamo rappresentare concretamente, e non solo sotto l’aspetto mediatico, un punto di riferimento e di aggregazione alternativa per i lavoratori nella nuova fase.

 

Siamo convinti, noi della CUB che ci troviamo qui oggi, che serva una forte concezione confederale del sindacato di base. Che non sia più sufficiente, anche se rimane indispensabile, tenere la frontiera aziendale e disinteressarsi di ciò che accade fuori da essa o al più ricordarsene ogni sei mesi attraverso l’indizione di scioperi generali che difficilmente riescono a far avanzare la situazione.

 

Siamo convinti soprattutto, che l’epoca dell’altezzosa autosufficienza, che non abbiamo mai condiviso, sia definitivamente tramontata, perché inutile, perché profondamente sbagliata e dannosa per i rapporti con i lavoratori e con il resto del sindacalismo di base e conflittuale.

 

Il dibattito interno alla nostra confederazione non è mai stato facile. Per anni, nel confronto interno, abbiamo utilizzato una formula bizzarra, contenuta nello statuto, per cui chi più pesava meno contava. Una bizzarria che però aveva un fine, quello di consentire a tutte le organizzazioni che mano a mano entravano a costruire la Cub, di avere il tempo di rafforzarsi e definire un proprio profilo, una propria linea di lavoro e di intervento, senza temere di dover sottostare alle posizioni di chi, per peso, presenza territoriale, condizioni materiali avrebbe avuto buon gioco nel costruire le scelte e definire i percorsi per tutti, sulla scorta della propria impostazione e della propria indubbia forza.

 

Questa modalità di lavoro ha funzionato, con alti e bassi, abbastanza bene nel corso dei 17 anni trascorsi dalla fondazione della confederazione. Noi rivendichiamo pertanto la scelta di aver costruito la Cub con il meccanismo che ho descritto. Oggi però, a 17 anni dalla nascita della CUB questo modello non funziona più.

 

Quel modello ha funzionato perché non si sono presentate contraddizioni sociali tali da chiederne la modifica e perchè alla base c’era una forte condivisione delle scelte e dei passaggi da fare, e c’era soprattutto la consapevolezza che un bel giorno, divenuti tutti adulti, il confronto si sarebbe tenuto libero, democratico, con la costante verifica dei risultati ottenuti.

 

Si è quindi giunti, attraverso una discussione non rituale né banalmente incentrata sui “poteri” interni alla confederazione, così come qualcuno ha provato a rappresentarla perché così facendo poteva mantenere un’equidistanza che giunti a questo punto non ha proprio alcun senso, alla forte richiesta della convocazione del massimo organismo della CUB, l’Assemblea nazionale.

 

Un’Assemblea nazionale che sul piano politico consentisse una discussione ampia, franca, aperta sulle cose da fare e sul come e con chi farle, e sul piano organizzativo tirasse una riga definitiva sulla vecchia impostazione della CUB e la rilanciasse attraverso una responsabile verifica democratica dello stato delle strutture, della crescita ottenuta finora, dei risultati conseguiti, anche sul piano del confronto e della partecipazione istituzionale.

 

Un’Assemblea nazionale che sancisse quanto già avevamo previsto a Rimini nel 2003, e cioè la trasformazione da confederazione di organizzazioni in confederazione di categorie, capaci di definire la propria presenza tra i lavoratori con proprie strategie di lotta e di rivendicazione e con la struttura confederale dedicata al raccordo forte e alla creazione della condivisione dei progetti generali, tesa a crescere nel territorio per aprire spazi di presenza sociale e politica fra i soggetti senza sindacato.

 

Il Congresso di Sirmione di alcune delle organizzazioni del privato della CUB ha segnato invece una profonda frattura sia interna alle organizzazioni che li si riunivano sia con il pezzo RdB.

 

Una visione sprezzante e autosufficiente, figlia di una profonda debolezza e di una evidente mancanza di strategia di sviluppo, tale da arrivare ad impedire ai membri dei propri gruppi dirigenti la presenza a questa assemblea, ha reso quello che poteva e doveva essere un momento di riflessione su quanto costruito fino ad oggi, sui pregi e sui difetti dell’impalcatura politico/organizzativa realizzata finora in quelle organizzazioni, in un momento fortemente identitario in cui si identificava e si additava il nemico interno per evitare la discussione vera sulle questioni vere. Davvero una brutta pagina a cui non credevamo di dover assistere!

 

Ma un punto centrale su cui si è incentrato il dibattito interno alla Cub è stato quello della relazione con il resto del sindacalismo di base e non solo. Già nel corso del 2008 avevamo posto con forza l’esigenza di stabilire un raccordo non formale ed episodico con quelle realtà del sindacalismo antagonista e di classe più vicine a noi per storia e cultura e che avessero una consistenza e una diffusione nazionale, quindi in particolare con SdL intercategoriale e la Confederazione Cobas. Con molta fatica, ma aiutati in questo dal convegno promosso dalla CUB di Varese, siamo riusciti a far passare dentro la CUB l’idea del “Patto di Consultazione Permanente” e abbiamo contribuito largamente alla riuscita dell’Assemblea nazionale del 17 maggio del 2008 a Milano. Da quel momento si sono avviate due dinamiche, una esterna alla Cub, con la costruzione di relazioni sempre più strette e sinceramente utili con i compagni di SdL e Cobas che ha prodotto lo straordinario sciopero generale del 17 ottobre, l’Assemblea del 7 febbraio a Roma e la trasformazione da Patto di Consultazione in un più robusto e stringente Patto di Base e una interna alla CUB, ma di una parte della CUB, che, ritenendo la prima una relazione pericolosa per il proprio equilibrio interno, ha cercato in ogni modo di far fallire il progetto di consolidamento del Patto. La proclamazione dello sciopero generale del 12 dicembre sta dentro questa dinamica e, per quanto ci riguarda è un capitolo chiuso e definitivamente archiviato.

 

Tra gli argomenti che più sono stati utilizzati per esorcizzare la nostra richiesta di profonda trasformazione della CUB c’è l’idea di costruzione di un sindacato metropolitano, che si è voluto leggere come contrapposto al sindacato radicato in azienda, e descritto come possibile levatrice di un progetto politico piuttosto che sindacale.

 

Ora è chiaro a chiunque viva davvero su questo pianeta, ne frequenti le strade e le piazze, che il mondo del lavoro si è trasformato radicalmente, che non esiste più solo il posto di lavoro classico, dove esistono soggetti omogenei con richieste più o meno omogenee di tutele, facilmente – è ovviamente un eufemismo – organizzabili sindacalmente dentro contenitori più o meno larghi, più o meno capaci di rispondere alle esigenze e alle richieste che là si esprimono.

 

Esiste una diffusione di soggetti diversi che non hanno un luogo di lavoro fisico, o che, come i precari, anche se lo hanno lo hanno per pochi mesi e poi se va bene lo cambiano, che sono i più ricattabili e addirittura fungono inconsapevolmente da agenti del ricatto verso i lavoratori stabili cui vengono additati come l’esempio vivente della fine che faranno se oseranno alzare la testa. Sono quelli senza salario e senza lavoro che chiedono reddito, sono quelli che non hanno una casa di proprietà e ne chiedono una popolare e un sostegno all’affitto perché non possono permettersi di comprarla né di pagare un affitto alla rendita speculativa, sono gli immigrati che assommano in se tutto questo e che sono buoni solo quando fanno da badanti ai nostri vecchi o quando sono braccia nelle fabbriche e nei cantieri e non quando hanno bisogno di casa, di lavoro, di diritti uguali. Sono il prodotto più evidente della globalizzazione e della trasformazione produttiva.

 

E noi non dovremmo occuparcene!

 

Noi dovremmo accontentarci solo di sostenerli attraverso l’ufficio vertenze, il patronato, lo sportello immigrati, il sindacato casa, senza dare dignità e strumenti di organizzazione al conflitto che esprimono per il diritto alla casa, al lavoro, al reddito, alla cultura, alla socialità in stretta collaborazione e condivisione con le lotte e le esigenze degli altri lavoratori cui quotidianamente offriamo, pur nel nostro piccolo, proposte di conflitto per aggredire e cambiare la propria condizione materiale.

 

Anche nel confronto con le realtà sociali che già operano su questi terreni di ricomposizione dei bisogni sul territorio spesso si è adombrata una tendenza all’egemonia del sindacale puro nei confronti di pratiche diverse ma assolutamente efficaci che si realizzano nelle metropoli e nel sociale. Sarebbe ora di finirla anche con queste supposte supremazie e ci si accingesse invece ad un serio e serrato confronto con chi ha probabilmente qualcosa da insegnarci su come si può articolare la relazione sociale di massa nel ventunesimo secolo. In questo senso il confronto con il movimento politico e sociale assume un rilievo importante.

 

Siamo arrivati quindi a questa Assemblea nazionale della CUB divisi al nostro interno su alcune questioni fondamentali e dirimenti: l’esigenza di una vera ampia confederalità capace di riempire lo spazio politico/sindacale che la crisi, ma non solo, ha aperto; l’instaurazione di una prassi democratica interna che mettesse fine alla bizzarria che ho citato in cui “più pesi e meno conti”; l’apertura di un confronto a tutto campo con le altre organizzazioni del sindacalismo di base, a partire da SdL e Confederazione Cobas, sulla necessità e opportunità di mettere assieme le forze per offrire davvero uno strumento adeguato e utile ai lavoratori nella nuova fase; l’avvio, non episodico ma strutturato, del lavoro sul territorio attraverso la costruzione di esperienze di sindacato metropolitano e una relazione non strumentale ed egemonica con chi già opera sul fronte sociale.

 

Siamo giunti a questa Assemblea nazionale senza una parte della CUB e di questo siamo profondamente dispiaciuti, anche se non disperiamo di recuperare i rapporti con coloro che, pur in ritardo, sapranno mettere in disparte le beghe personali o gli anacronistici atteggiamenti pilateschi ed affrontare politicamente i nodi politici che sono sul tappeto .

 

Oggi dobbiamo avviare un percorso nuovo, questo è quello che ci siamo prefissi, ma soprattutto quello che, dal nostro modesto punto di vista, riteniamo serva al movimento dei lavoratori e al movimento di classe.

 

Non possiamo e non vogliamo operare già qui ed ora scelte definitive, sarebbe sbagliato e chiuderebbe le porte ad altri soggetti, interni ed esterni alla CUB. Però riteniamo si debba uscire oggi da questa Assemblea nazionale con un forte impulso al cambiamento. Una forte spinta all’unificazione del sindacalismo di base, una concreta relazione ed azione diretta con e sul territorio.

 

Proponiamo perciò l’avvio di una fase costituente, con le caratteristiche che ho prima descritto, cui partecipino tutti quei soggetti che condividono le esigenze che abbiamo rappresentato nel documento per l’Assemblea nazionale e in questa certamente non esaustiva breve relazione. Proponiamo che l’Assemblea individui un percorso, lungo il tempo necessario, di confronto serrato, animato da compagne e compagni provenienti dalle diverse esperienze ed appartenenze. Capace di produrre una proposta di sintesi politico/organizzativa su cui far misurare una nuova più larga assemblea generale del sindacalismo di base, aperta ai movimenti e ai soggetti sociali che la ritengano utile e intendano intessere una relazione con essa, da tenersi non appena giunti ad una positiva conclusione e in cui sia possibile lanciare definitivamente il varo del nuovo soggetto.

 

Riteniamo indispensabile superare le divisioni che pure esistono, soprattutto a livello di categoria e di territorio, e le diversità che pure ci sono, per arrivare quanto prima possibile alla costruzione di un nuovo soggetto sindacale in cui far confluire, perché siano esaltate, tutte le nostre diversità e le nostre esperienze. Ma sappiamo che molte volte “il meglio è nemico del bene”  e che, se la sostanziale unificazione delle varie organizzazioni rappresenterebbe senz’altro il traguardo migliore, sappiamo anche che tali condizioni devono maturare senza forzature, se vogliamo davvero che siano durature e positive.

 

Inventare un nuovo modo di fare ed essere sindacato, nella nuova e complessa fase, non sarà cosa semplice, così come riteniamo non sarà affatto indolore operare un taglio alla propria storia per iniziarne un’altra. Sarà la discussione collettiva a darci le risposte che cerchiamo da tempo su quale sindacato occorre e su quale sindacato quindi costruire. Ciascuno dei soggetti che decideranno di partecipare alla fase costituente dovrà portare il proprio contributo e la propria ipotesi di lavoro su cui discutere, la base unitaria che proponiamo è, ovviamente quella della totale indipendenza dai padroni, dai governi, dai partiti, ma questa è probabilmente una inutile sottolineatura.

 

Ci siamo posti ripetutamente il problema di quale modello sindacale fosse il più adeguato per provare a mettere assieme storie ed esperienze diverse. Passiamo la palla a chi dovrà gestire la fase costituente, sapendo però che sarà necessario per ciascuno di noi rinunciare a un po’ della propria sovranità e della propria fisionomia, che dovremo lavorare, senza gelosie, ad analizzare i modelli sin qui utilizzati e i risultati ottenuti per poter far tesoro di ciò che ha funzionato e accantonare ciò che non ha prodotto quello che ci si aspettava.

 

Dovrà discutere, il Comitato Costituente, se così vogliamo chiamarlo, di come si decide nella nuova organizzazione, di come si finanzia, di come si garantiscono autonomie e necessità collettive, dei tempi  e delle modalità dell’unificazione, di come costruire le categorie stando attenti a calibrare bene l’impianto, perché sia in grado di rispondere anche alle esigenze della rappresentanza sempre e continuamente messa in discussione, come affrontare assieme lo scoglio delle RSU. Dovrà però anche discutere di come mantenere e favorire la relazione anche con quanti oggi non si sentano pronti a fare il passaggio unitario, con coloro che non hanno maturato appieno la nostra stessa esigenza. Un compito difficile, che deve fare i conti con la nostra cultura, con quel po’ di gelosia che ciascuno ha nel mettersi in gioco, con le storie nobili che ciascuno di noi rappresenta.

 

Nel frattempo dovremo essere capaci di mantenere alto il livello della lotta e della mobilitazione, non cedendo di un millimetro sulla nostra capacità di esercitare davvero il conflitto perchè troppo impegnati a discutere dello strumento e magari dimenticandoci dell’oggetto materiale della nostra iniziativa.

 

 

Chi resta a casa quando la battaglia comincia e lascia che gli altri combattano per la sua causa deve stare attento: perché chi non partecipa alla battaglia parteciperà alla disfatta. Neppure evita la battaglia chi la battaglia vuole evitare: perché combatterà per la causa del nemico chi per la propria causa non ha combattuto.

                   (B. Brecht)

 

 

Per la RELAZIONE INTRODUTTIVA impaginata e la MOZIONE CONCLUSIVA approvata, la GALLERIA FOTOGRAFICA e gli interventi in formato AUDIO:

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