LA VOSTRA CRISI NON LA PAGHIAMO!

Milano -

Gli economisti del pensiero unico hanno dato pessima prova di sé: prigionieri  del paradigma del liberismo, non hanno saputo preavvertire i segnali della crisi che si è abbattuta sulle economie dei paesi a capitalismo avanzato, attirandosi perfino i rimbrotti di Tremonti, noto tributarista: “gli economisti farebbero bene a tacere!” Ora gli stessi scoprono che siamo di fronte ad una crisi da domanda, originata dalla perdita del potere d’acquisto delle famiglie, che hanno smesso di acquistare beni e servizi, in conseguenza di un generale impoverimento, che colpisce anche gli occupati. A questi esperti bisognerebbe ricordare che fino a poco tempo fa non hanno fatto altro che esaltare questo modello di sviluppo, senza avvedersi delle conseguenze devastanti che la finanziarizzazione dell’economia avrebbe inevitabilmente scaricato sul sistema produttivo.   

Oggi si sforzano di offrirci una spiegazione plausibile di quanto sta accadendo, attraverso un’artificiosa contrapposizione tra l’economia finanziaria di carattere speculativo, che avrebbe provocato i guasti attuali, e un’economia “reale” sana, che ha bisogno di essere rigenerata per portarci fuori dalla recessione e dall’imminente depressione. Ma le cose stanno proprio così? A noi sembra proprio di no! E’ semplicistico attribuire alla sola speculazione finanziaria, che pure ha gravissime responsabilità, l’origine di tutti i mali. Qui è un intero modello di sviluppo che sta dimostrando tutti i propri limiti, e le origini di questa crisi vanno invece ricercate proprio all’interno dell’economia cosiddetta reale e dei principi liberisti che l’hanno ispirata in questi decenni, nel corso dei quali si è verificato un gigantesco trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale. 

A questo risultato non si è arrivati per caso, ma in conseguenza dei processi di privatizzazione delle aziende statali e parastatali, della precarizzazione dei rapporti di lavoro, della compressione dei salari grazie alla concertazione sindacale. La vicenda dei mutui subprime negli USA è servita proprio a occultare l’impoverimento delle famiglie, dando loro l’illusione di poter acquistare facilmente la casa di abitazione, o di poter continuare a mantenere invariato il loro tenore di vita attraverso il ricorso alle carte di credito. Solo la tradizionale e consolidata propensione al risparmio delle famiglie italiane ha impedito che anche da noi si producesse un’analoga catastrofe finanziaria. 

Eppure anche qui non sono mancati tentativi di incentivare le famiglie ad indebitarsi, per fronteggiare il progressivo impoverimento e il conseguente abbassamento del tenore di vita. A questa logica risponde, infatti, l’estensione anche ai pensionati della cosiddetta cessione del quinto, con trattenuta sulla pensione effettuata dall’INPS, come previsto dal decreto ministeriale 313 del 2006. Si è buttato così nelle braccia fameliche delle società finanziarie e delle banche i pensionati, che sono stati indotti – anche grazie al coinvolgimento dell’INPS per quanto limitato all’effettuazione della trattenuta sulla pensione  – ad accedere al credito a condizioni ritenute vantaggiose. 

Analoga operazione è stata messa in atto anche con i fondi-pensione e la previdenza integrativa, scippando i lavoratori italiani del trattamento di fine rapporto per dirottarlo verso i fondi-pensione e gli investimenti in borsa, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti: il rendimento del TFR è stato di gran lunga superiore a quello dei fondi-pensione. Questo esito ci dice che eravamo nel giusto quando abbiamo invitato i lavoratori a manifestare esplicitamente la volontà di non rinunciare al TFR ed opporsi al meccanismo truffaldino del silenzio assenso; ancora una volta siamo stati gli unici a condurre questa battaglia, perfino derisi da coloro (tra questi anche i sindacati confederali) che magnificavano il ruolo dei fondi-pensione e le rosee prospettive che promettevano.  

Una campagna martellante, giustificata sul piano teorico dai soliti economisti, non ha fatto altro che terrorizzare l’opinione pubblica con lo spauracchio del debito pubblico, il rispetto dei parametri di Maastricht, il ruolo dell’Unione Europea come un enorme vincolo di bilancio pendente sulle nostre teste. Non una parola è stata spesa in questi anni sul debito privato delle famiglie, delle imprese, delle banche, che adesso si è dimostrato di proporzioni immani e molto più grave dell’altro. Non si è trattato di una semplice distrazione, ma di una precisa scelta economica e politica allo stesso tempo: l’indebitamento è stato in qualche modo favorito proprio per nascondere le difficoltà delle famiglie, che vedevano ridursi progressivamente la propria capacità di spesa, creando così l’illusione che il loro tenore di vita restava invariato, mentre in realtà andava perdendo inesorabilmente peso grazie alla riduzione di fatto delle retribuzioni, per gli effetti della politica della moderazione salariale, e alle speculazioni sui prezzi iniziate con l’introduzione dell’euro. 

La moderazione salariale garantita negli ultimi due decenni dalla concertazione tra Governo, Confindustria e Cgil-Cisl-Uil da una parte, e dall’altra la precarizzazione dei rapporti di lavoro attraverso la legge N. 196 del 24 giugno 1997 (chiamata anche legge Treu) e poi della legge  N. 30 del 14 febbraio 2003 (chiamata anche legge Biagi), hanno determinato una costante riduzione del costo del lavoro a favore delle imprese. Ma tutto ciò non ha impedito alle imprese italiane di perdere competitività e quote di mercato rispetto ad altre imprese, comprese quelle di paesi, come ad esempio la Germania, con retribuzioni ben più alte delle nostre, ed una quota di lavoratori precari nettamente inferiore. 

Dati ufficiali sull’indebitamento delle imprese italiane non vengono forniti; tuttavia sappiamo che il problema c’è e riguarda anche grandi imprese come la Fiat. Quello che sconcerta è il fatto che i soldi che le imprese hanno chiesto in prestito al sistema creditizio non sono stati investiti in innovazione, sviluppo, ricerca e formazione del personale, condannandole inesorabilmente a perdere quote di mercato a livello internazionale. In buona sostanza le imprese italiane hanno cercato di reggere la competizione unicamente attraverso gli strumenti della compressione dei salari e il ricorso al precariato, producendo un generalizzato impoverimento dei redditi da lavoro, che dunque non nasce oggi con la crisi internazionale, ma è figlio delle politiche retributive di questi anni: l’attuale crisi internazionale non ha fatto altro che aggravare una situazione già difficile. 

Questo esito disastroso per il nostro sistema produttivo è stato ulteriormente aggravato dall’utilizzo dei proventi del profitto sul mercato borsistico e acquistando i vari strumenti messi a disposizione dalla “finanza creativa”, come i titoli cosiddetti derivati, poi ribattezzati “titoli spazzatura”, quando ormai i guasti erano già stati compiuti. 

Parafrasando il noto slogan della politica economica “reaganiana” degli anni ‘80, oggi possiamo affermare che “il mercato non è la soluzione, ma il problema”. Oggi bisogna ripartire dalle condizioni materiali dei lavoratori, dei precari, dei pensionati e di tutti coloro ai quali si vuole far pagare il costo sociale della crisi. In tutti questi anni ci è stato spiegato, da destra e da sinistra senza sostanziali differenze di impostazione, che la sostenibilità finanziaria dei bilanci pubblici veniva prima di ogni altra cosa, che lo Stato sociale costava troppo e costava troppo lo stesso lavoro subordinato. Adesso si scopre che siamo alle prese con una crisi da domanda e che i consumi sono crollati, e c’è ancora qualche politico spudorato come Berlusconi che invita gli Italiani a consumare di più, dopo aver loro decurtato i salari, gli stipendi e le pensioni.  

Bisogna fermare queste politiche scellerate che stanno producendo macelleria sociale e chiedono al sindacalismo confederale di compere l’ennesima scelta regressiva: dalla concertazione alla cooperazione (Sacconi si era lasciato sfuggire il termine infelice di complicità). Evidentemente la concertazione non basta più; si richiede una completa sintonia tra Governo, Confindustria e Cgil-Cisl-Uil per imporre il nuovo modello sociale all’insegna dello slogan “più lavoro meno salario”. Emblematica al riguardo la vicenda Alitalia, conclusasi con un accordo che taglia le retribuzioni e licenzia più di 7.000 lavoratori.  

Anche il pubblico impiego subisce la stessa sorte: qui le retribuzioni vengono decurtate “ope legis”, con un decreto immediatamente operativo ed una successiva legge di conversione; nel contempo si riducono gli organici licenziando i precari, bloccando fino al 2012 le assunzioni ed incentivando i pensionamenti con meccanismi più o meno coattivi. L’intera operazione, guidata ufficialmente dal Ministro Brunetta, ma in realtà ispirata da Tremonti per fare cassa, in modo da avere disponibili svariati miliardi di euro da elargire alle banche per evitarne la bancarotta, viene spudoratamente presentata all’opinione pubblica come una grande progetto di miglioramento e ammodernamento della pubblica amministrazione.  

In un’intervista concessa al quotidiano “Il Mattino” il 31 dicembre scorso, Brunetta afferma con i consueti toni trionfalistici che, grazie alla sua riforma della pubblica amministrazione, “saranno dimezzati i tempi di attesa della giustizia, raddoppiate qualità e quantità dei servizi offerti dalla scuola, ridotte drasticamente le attese per gli esami medici”. Queste parole andrebbero scolpite nella pietra a futura memoria. In realtà si sta andando in direzione esattamente opposta: i pesanti tagli ai fondi pubblici stanno mettendo in ginocchio le amministrazioni, a partire dalla scuola, dove si è tentato di applicare le norme della legge 133, scatenando la protesta degli studenti, dei docenti, e degli stessi rettori, che hanno denunciato il tracollo finanziario delle università entro il 2010. 

Non deve meravigliare più di tanto il risalto che alcuni giornali stranieri, di chiara impostazione liberista, dedicano al ministro Brunetta, che in effetti sta realizzando il sogno di tutti i liberisti: ridurre drasticamente le risorse del servizio pubblico e far credere che in questo modo si aumentano i servizi e le prestazioni sociali.   

 

p/RdB-CUB INPS Milano-Gioia

        (Andrea Malatesta)